NUR / LUCE Mostra fotografica di Monika Bulaj
Riporto da Retecivica Trieste Cultura la presentazione della mostra
NUR/LUCE. Appunti afgani è una mostra della fotoreporter Monika Bulaj, che dopo essere stata presentata a Venezia nella Loggia di Palazzo Ducale e a Roma alle Officine Fotografiche, viene ospitata a Trieste, nella suggestiva cornice dell’ex Pescheria - Salone degli Incanti, arricchita da nuove immagini e testi, interventi negli spazi aperti della città e un convegno tematico.
NUR/LUCE. Appunti afgani e’ un viaggio nell’altro Afghanistan, nelle parole di Monika Bulaj “Un viaggio solitario nella terra degli Afgani. Dividendo il cibo, il sonno, la fatica, la fame, il freddo, i sussurri, il riso, la paura. Spostandosi con bus, taxi, cavalli, camion, a dorso di yak. Dal confine iraniano a quello cinese sulle nevi del Wakhan, armati soltanto di un taccuino e una Leica, fatti per l’intimità dell’incontro. Balkh, Panjshir, Samanghan, Herat, Kabul, Jalalabad, Badakshan, Pamir Khord, Khost wa Firing. Uno slalom continuo per evitare i banditi targati Talib, seguendo la complicata geografia della sicurezza che tutti gli afgani conoscono. Parlando con gli afgani, ho scoperto che la guerra è una macchina miliardaria che si autoalimenta e che pur di funzionare arriva al punto di pagare indirettamente tangenti allo stesso nemico. Rifiutando di viaggiare con un’unita’ militare - ‘embedded’ - protetti da un elmetto in kevlar, ho ritrovato un mondo che, dalla Maillart a Bouvier, gli europei amarono e che ora, dopo dieci anni di presenza militare, abbiamo rinunciato a conoscere. La culla del sufismo e di un Islam tollerante che, lì come in Bosnia, l’Occidente si ostina a ignorare, un mondo odiato dai Taliban e minacciato dal nostro schema dello scontro bipolare. Un Paese nudo e minerale, dove un albero ha una maestà senza eguali e l’individuo non ha spazio per l’arroganza. Deserti dove il richiamo “Allah u Akhbar” suona più puro che altrove. Una terra abbacinante, dai cieli sconfinati, e così inondata di sole che bisogna rifugiarsi nell’ombra - interni, albe e crepuscoli - per ridare un senso alla luce, al fuoco, ai bagliori dello sguardo. Un Paese disperato, dove la donna è schiacciata dal tribalismo e l’oppio è la sola medicina dei poveri, ma dove una straniera può essere accolta in una moschea e l’incantamento dello straniero è vissuto come una benedizione. Una terra dove si rischia la vita solo andando a scuola e dove nelle periferie disperate i bambini si svegliano alle quattro del mattino per andare a prendere l’acqua con gli asini. Ma anche un Paese d’ironia, capace di ridere nei momenti più neri, rispettoso degli anziani, perfettamente conscio che il solo futuro possibile sta nella scuola, e nei bambini che domani saranno uomini”.
NUR/LUCE. Appunti afgani e’ un viaggio nell’altro Afghanistan, nelle parole di Monika Bulaj “Un viaggio solitario nella terra degli Afgani. Dividendo il cibo, il sonno, la fatica, la fame, il freddo, i sussurri, il riso, la paura. Spostandosi con bus, taxi, cavalli, camion, a dorso di yak. Dal confine iraniano a quello cinese sulle nevi del Wakhan, armati soltanto di un taccuino e una Leica, fatti per l’intimità dell’incontro. Balkh, Panjshir, Samanghan, Herat, Kabul, Jalalabad, Badakshan, Pamir Khord, Khost wa Firing. Uno slalom continuo per evitare i banditi targati Talib, seguendo la complicata geografia della sicurezza che tutti gli afgani conoscono. Parlando con gli afgani, ho scoperto che la guerra è una macchina miliardaria che si autoalimenta e che pur di funzionare arriva al punto di pagare indirettamente tangenti allo stesso nemico. Rifiutando di viaggiare con un’unita’ militare - ‘embedded’ - protetti da un elmetto in kevlar, ho ritrovato un mondo che, dalla Maillart a Bouvier, gli europei amarono e che ora, dopo dieci anni di presenza militare, abbiamo rinunciato a conoscere. La culla del sufismo e di un Islam tollerante che, lì come in Bosnia, l’Occidente si ostina a ignorare, un mondo odiato dai Taliban e minacciato dal nostro schema dello scontro bipolare. Un Paese nudo e minerale, dove un albero ha una maestà senza eguali e l’individuo non ha spazio per l’arroganza. Deserti dove il richiamo “Allah u Akhbar” suona più puro che altrove. Una terra abbacinante, dai cieli sconfinati, e così inondata di sole che bisogna rifugiarsi nell’ombra - interni, albe e crepuscoli - per ridare un senso alla luce, al fuoco, ai bagliori dello sguardo. Un Paese disperato, dove la donna è schiacciata dal tribalismo e l’oppio è la sola medicina dei poveri, ma dove una straniera può essere accolta in una moschea e l’incantamento dello straniero è vissuto come una benedizione. Una terra dove si rischia la vita solo andando a scuola e dove nelle periferie disperate i bambini si svegliano alle quattro del mattino per andare a prendere l’acqua con gli asini. Ma anche un Paese d’ironia, capace di ridere nei momenti più neri, rispettoso degli anziani, perfettamente conscio che il solo futuro possibile sta nella scuola, e nei bambini che domani saranno uomini”.
In sintesi queste parole di Monika Bulaj condensano il suo viaggio, ci sono tre fotografie che io reputo le più significative.
La figura di donna che esce dal luogo oscuro verso la luce, perché in tutte le civiltà la donna è il motore della rivoluzione e del progresso.
La donna nella sua identità negata, velata, vilipesa, torturata, sullo sfondo di una città fatta di tuguri di fango, in una povertà mitigata dall'oppio, che calma la fame, che viene usato per curare le malattie e che viene dato anche ai neonati!
Questa foto ha come didascalia " Qui educare una figlia vuol dire educare tutta la famiglia".
Nonostante i talebani osteggino l'istruzione femminile, volendo tenere asservite le donne in un'ignoranza che semina futura servitù, gli afgani cercano in ogni modo di educare le proprie donne, nonostante le minacce, le persecuzioni. Perché sanno che solo educando i loro figli e le loro figlie questi potranno costruire un domani migliore e salvare anche i loro genitori.
Più che in altri continenti qui la donna è meno di zero. Monika Bulaj scrive : "L'ospedale di Mazar-l Sharif ha solo 5 letti per tutto il nord del confine utzeco e cinese, nove province devastate dalla peste dell'auto-immolazione. Le donne bruciate dal kerosene arrivano soprattutto d'inverno, il tempo dei matrimoni. E' come le portasse il vento. Di Amar Bibi sono rimasti solo gli occhi di nera ciliegia, che ancora sorridono. Il resto è un unica piaga: Amar si è data fuoco per non sposare chi non voleva in cambio di ottomila dollari e due mucche alla famiglia."
Sotto questa descrizione c'è la foto di Amar Bibi : sconvolgente.
I bambini, più della metà dei neonati non superano l'inverno.
I bambini spariscono, vengono rapiti, 4-5 la notte!
La mostra mi ha sconvolto: la miseria, la sporcizia, la persecuzione, i visi delle donne alcune a volto scoperto, mostrano una grazia ed un orgoglio statuario, soprattutto quelle della tribù nomade dei Kuchi, una volta pastori nomadi, ora costretti a diventare i derelitti delle bidonville di Kabul, etnia più vilipesa, proprio come gli zingari dell'Europa Orientale in tempo di guerra.
La guerra ha sconvolto questa terra, che è lontana, ma quando guardi quelle foto, ti risucchiano l'anima. Ho cercato di proiettarmi dentro la loro realtà : ho pensato come vivrei in questa loro realtà di miseria, di dolore, di disperazione, di mutilazioni (perché è uno dei paesi con più alto tasso di mine) e di persone che si bruciano vive per reclamare il diritto più antico e sacro : la libertà!
Penso alla futilità del nostro mondo privilegiato, nonostante la crisi, penso a quanto siamo fortunati nella nostra miseria, che suona comunque come una ricchezza paragonata alla realtà dell'Afganistan.
6 Commenti:
Ciao Renata, penso che il silenzio sia l'unico commento possibile, come sempre quando leggo cose di questo genere , resto sconvolta.
Hai fatto un bellissimo post, con delle meravigliose fotografie...mi piace la prima per il suo grande significato.
A presto, buona giornata.
Antonella
Bellissime foto: molto intense e drammatiche
Ciao Renata, foto bellissime, quella che mi ha colpito di più è la donna col burka.
In effetti i nostri problemi sono ben poco rispetto ai loro, e noi oltre alla fortuna dobbiamo, secondo me, ringraziare i nostri nonni e bisnonni che hanno dato la vita per farci vivere in un paese democratico.
a tutte : guardate su google immagini le altre foto! sono splendide!!!
certo che loro sono oggi come noi quasi mille anni fa!!!!
mi fa pensare...
eh si! E pensare che erano il crocevia delle civiltà, una delle civiltà più progredite dove il sufismo arrivava ad altissima poesia!!
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