sabato 17 marzo 2018

Una ferita aperta

 
Dicono che quando si legge qualcosa lo si comprende veramente solo se lo si è già vissuto. Queste che seguono sono le parole di Agnese Moro, davanti alla ex brigatista Adriana Faranda. Le riporto qui omettendo riferimenti espliciti all’assassinio del padre, perché leggendo queste parole ho ravvisato una comune essenza con tutti i generi di ferite profonde, nel mio caso l’ESODO ed hanno portato alla ribalta un punto dolente: perché dopo tanti anni brucia ancora?
 
 
 
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Agnese Moro: La mia vita è rimasta bloccata …, sei sempre lì. E non perché te lo ricordi, ma perché ogni giorno risuccede. E questa dittatura del passato ti isola perché pensi che nessuno ti potrebbe mai capire. Hai dentro un urlo che non riesce a uscire, ti soffoca. Alla fine tutto fa sì che i morti abbiano più spazio dei vivi, di quelli che stanno intorno a te, di quelli che ami. E ti accorgi drammaticamente che il male non rimane lì. Va avanti finché qualcuno non lo fermerà, perché crea altre situazioni di sofferenza. E tutto si accompagna a sentimenti di rancore, di rabbia, anche di senso di colpa …. …. io non sono riuscita a salvarlo. E assieme c’è un desiderio di giustizia ». Che non sono gli anni di carcere. «Non si sta meglio. È un’illusione. Potevano dargli 100mila anni di carcere e non si sarebbe risolto il problema perché tu hai bisogno di avere una giustizia che riguardi anche le ferite che hai ricevuto. E che non sono facilissime da curare.
 
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Oggi tutti recriminano: son passati tantissimi anni, sarebbe ora di dimenticare. Eppure io, figlia dell’esodo, nata 11 giorni dopo che la mia famiglia aveva voltato le spalle alla propria casa ed alla propria terra  PER SEMPRE, buttando in mare la chiave di una porta che nessuno di loro avrebbe più usato e che racchiudeva tutto il loro mondo, ho assorbito con il latte di mia madre e dagli animi dei miei familiari tutta la disperazione, tutta la miseria del periodo occorso per ricrearsi dal nulla senza soldi, ma con duro lavoro una nuova vita. Ho letto che avvenimenti così radicali modificano il DNA di una persona. Tutti coloro che avevano vissuto l’esodo nella mia famiglia mantenevano dentro di se un’anima spezzata, nonostante la forza e la determinazione con cui si sono ricreati una nuova casa, una nuova vita, nuove conoscenze e nonostante fossero tutti stati accettati per gente buona, grandi lavoratori –dopo l’iniziale brusca a volte molto amara diffidenza- creando amicizie di vita. Ma questo non è sufficiente. Alcuni sono stati feriti così profondamente che non si sono più risollevati e che la depressione ha spezzato fino in fondo.
 
 
 

Una parte rimane sempre ancorata alle radici. Perciò, perché non parlarne? Sicuro, come dice Agnese Moro, senza rabbia. I miei figli non hanno vissuto il nostro dramma da vicino, hanno visitato un paio di volte la Madre Patria, ma come un viaggio con i nonni. Non comprendono la ferita profonda che l’esodo ha segnato in noi, che lo abbiamo vissuto.  Anche perché non si ha piacere nel parlarne e come detto sopra, se non lo provi sulla tua pelle, non lo comprendi. Agnese Moro ha ricucito la ferita confrontandosi con Adriana Faranda, ma io non ho nessuno con cui confrontarmi.  E' facile dire di farsene una ragione, che è passato troppo tempo, che è il corso naturale delle guerre che devastano, poi si ricostruisce e si supera... ma dentro rimane qualcosa spezzato. Come la vivono gli altri? Qualcuno è riuscito a superarlo?