Una ferita aperta
Dicono che quando si legge qualcosa lo si comprende veramente solo se lo si
è già vissuto. Queste che seguono sono le parole di Agnese Moro, davanti alla ex
brigatista Adriana Faranda. Le riporto qui omettendo riferimenti espliciti
all’assassinio del padre, perché leggendo queste parole ho ravvisato una comune
essenza con tutti i generi di ferite profonde, nel mio caso l’ESODO ed hanno
portato alla ribalta un punto dolente: perché dopo tanti anni brucia
ancora?
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Agnese Moro: La mia vita è rimasta bloccata …, sei sempre lì. E non perché
te lo ricordi, ma perché ogni giorno risuccede. E questa dittatura del passato
ti isola perché pensi che nessuno ti potrebbe mai capire. Hai dentro un urlo che
non riesce a uscire, ti soffoca. Alla fine tutto fa sì che i morti abbiano più
spazio dei vivi, di quelli che stanno intorno a te, di quelli che ami. E ti
accorgi drammaticamente che il male non rimane lì. Va avanti finché qualcuno non
lo fermerà, perché crea altre situazioni di sofferenza. E tutto si accompagna a
sentimenti di rancore, di rabbia, anche di senso di colpa …. …. io non sono
riuscita a salvarlo. E assieme c’è un desiderio di giustizia ». Che non sono gli
anni di carcere. «Non si sta meglio. È un’illusione. Potevano dargli 100mila
anni di carcere e non si sarebbe risolto il problema perché tu hai bisogno di
avere una giustizia che riguardi anche le ferite che hai ricevuto. E che non
sono facilissime da curare.
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Oggi tutti recriminano: son passati tantissimi anni, sarebbe ora di
dimenticare. Eppure io, figlia dell’esodo, nata 11 giorni dopo che la mia
famiglia aveva voltato le spalle alla propria casa ed alla propria terra PER
SEMPRE, buttando in mare la chiave di una porta che nessuno di loro avrebbe più
usato e che racchiudeva tutto il loro mondo, ho assorbito con il latte di mia
madre e dagli animi dei miei familiari tutta la disperazione, tutta la miseria
del periodo occorso per ricrearsi dal nulla senza soldi, ma con duro lavoro una
nuova vita. Ho letto che avvenimenti così radicali modificano il DNA di una
persona. Tutti coloro che avevano vissuto l’esodo nella mia famiglia mantenevano
dentro di se un’anima spezzata, nonostante la forza e la determinazione con cui
si sono ricreati una nuova casa, una nuova vita, nuove conoscenze e nonostante
fossero tutti stati accettati per gente buona, grandi lavoratori –dopo
l’iniziale brusca a volte molto amara diffidenza- creando amicizie di vita. Ma
questo non è sufficiente. Alcuni sono stati feriti così profondamente che non si
sono più risollevati e che la depressione ha spezzato fino in fondo.
Una parte rimane sempre ancorata alle radici. Perciò, perché non parlarne?
Sicuro, come dice Agnese Moro, senza rabbia. I miei figli non hanno vissuto il
nostro dramma da vicino, hanno visitato un paio di volte la Madre Patria, ma
come un viaggio con i nonni. Non comprendono la ferita profonda che l’esodo ha
segnato in noi, che lo abbiamo vissuto. Anche perché non si ha piacere nel
parlarne e come detto sopra, se non lo provi sulla tua pelle, non lo comprendi.
Agnese Moro ha ricucito la ferita confrontandosi con Adriana Faranda, ma io non
ho nessuno con cui confrontarmi. E' facile dire di farsene una ragione, che è
passato troppo tempo, che è il corso naturale delle guerre che devastano, poi si
ricostruisce e si supera... ma dentro rimane qualcosa spezzato. Come la vivono
gli altri? Qualcuno è riuscito a superarlo?