La strada dove sono andata ad abitare a Trieste da bambina dopo l'esodo era molto affollata: dalle 8 alle 12.00 si svolgevano i ... funerali! All'inizio fece un certo effetto, poi con il tempo, erano diventati una normalità, tanto che mia madre, sarta, si metteva alla finestra qualche volta a controllare con occhio esperto i vestiti delle signore e prendeva spunto per qualche sua creazione.
Sotto casa avevamo un negozio di piccoli elettrodomestici per la casa, i negozi di alimentari una fioraia, una parrucchiera, un'officina, il negozio delle uova e dei polli, la panetteria, un negozio di mercerie ed abiti. Ma il negozio che attirava la mia fantasia e la mia meraviglia era la DROGHERIA.
Il Signor Renato era un uomo ben piantato, alto, occhi chiari, leggermente calvo, di età indefinita: quelli che già da giovani sono vecchi. Parlava con un leggero sibilo dovuto alla protesi, era sempre sorridente, ma aveva un rigore negli affari e modi affabili nel trattare i clienti. Ironico senza prendersi troppa confidenza, attento, era insofferente solo con la moglie che rimproverava spesso in quanto renitente a svolgere per suo conto operazioni in banca e dal commercialista, cosa che lei poverina faceva per dovere, ma si vedeva che avrebbe preferito non avere tali incombenze.
Quando entravo nella bottega del Sig. Renato speravo sempre di ricevere in regalo una di quelle gustosissime caramelle che lui teneva in grandi vasi di vetro sopra una vetrinetta: le mente verdi con il rilievo bianco di zucchero, le mente bianche (fredde), gli zuccherini piccole pastiglie rotonde e piatte,le caramelle di zucchero d'orzo, la liquirizia in spaghetti, ma le mie preferite erano le caramelle di zucchero con interno di rosolio, erano più grandi e più ben definite di queste...
Il negozio aveva pareti attrezzate con mobilio di legno verniciato di verde, con in basso dei cassetti di vario volume e scaffali dal livello del banco fino al soffitto. Sul fondo del negozio la scaffalatura finiva nel balcone del soppalco superiore da dove pendevano corde di vario diametro di ogni tipo, fili con varie spazzole di diversi forme e misure, destinate a diversi usi. Scope di saggina e di crine, pattumiere. I cassetti recavano tutti un' etichetta con su scritto il contenuto. Negli scaffali c'erano ben disposti tutti i prodotti di drogheria confezionati, i saponi di vario genere, detersivi, ma anche profumi, prodotti di bellezza per il trucco e quant'altro. Sul fondo del negozio la scaffalatura si apriva nella porta da cui si accedeva al retrobottega ed alla scala del soppalco.
Nel retro si potevano intravvedere i grandi contenitori, bidoni di latta o di vetro che contenevano i liquidi tipici della pulizia del tempo. Acido cloridrico, ammoniaca pura che quando mettevi due cucchiai in un mezzo catino d'acqua piangevi per ore, ipoclorito di sodio, che bruciava la pelle delle mani se ti schizzavi, acetone, benzina avio, etere, alcol denaturato, alcol puro per liquori e quant'altro. Si portava la boccetta o la fiaschetta o bottiglia da casa che il sig. Renato riempiva.
All'inzio si acquistavano prodotti sfusi, ricordo l'amido, per inamidare i colletti e le camice di mio padre, il "perlin" polvere azzurra che si stemperava nell'acqua e si metteva nel risciaquo per render azzurra la biancheria, la "pomice", polvere antesignana del Vim.
Poi iniziarono a riempire gli scaffali i detersivi e vari detergenti in polvere inscatolati. Ricordo il Tide che aveva dei bellissimi pupazzetti di plastica dentro. Poi la Mira Lanza con Calimero e l'Olandesina invitarono ad acquistare i loro prodotti. Dentro c'erano le figurine con i punti: noi raccogliemmo tanti per vincere la macchina fotografica "la Ferrania". Aveva l'involucro esterno di plastica dura, si apriva alzando uno dei sostegni laterali di ferro: era elementare nello scatto, ma le foto erano molto belle, avevano un'ottima risoluzione ho ancora bellissime foto in bianco e nero e poi la Kodak commercializzò negli anni settanta la pelliccola a colori.
Il vecchio droghiere in camice nero ed occhiali di lettura sulla punta del naso, serviva il cliente con efficenza e solerzia, elargendo consigli, dando istruzioni, poi compilava il conto su pezzetti di carta, per poi battere il totale sulla grande cassa nera con i tasti tondi, il cassetto si apriva suonando il campanello!
Agli inizi i catini e le tinozze erano di zinco pesantissimi, mentre negli anni sessanta il mercato fu invaso dalla plastica, ma UNA particolare plastica la marca "Moplen" della Montecatini fatto di "polipropilene" inventato nel 1954 da Giulio Natta (Imperia 1903 - Nobel nel 1963, Bergamo 1979).
In quella via abitai fino al 1979 ed il negozio era ancora lì, con dentro il Sig. Renato, che si lamentava dei tempi e della concorrenza dei supermercati, delle formalità burocratiche sempre più complesse, al nuovo regime di tassazione (l'I.V.A.) e che non vedeva l'ora di maturare l'età per la pensione.
Ogni volta che vedo queste caramelle ripenso al Sig. Renato ed ho ancora una spazzola di crine per i capelli che lui mi vendette nel 1977. Non ci sono più i droghieri di una volta ;)
E’ arrivato! Con la pioggia ed i temporali, con il fresco, ma ancora
una temperatura accettabile.
Settembre è il mese che preferisco, il tempo si rinfresca, ma il sole ha ancora forza per riscaldare ed
i bagni di mare sono splendidi! Ma Settembre nelle mie memorie è legato alla vendemmia, quando dal
nonno e dagli zii ci si riuniva tutti e si chiamava anche qualche parente a
vendemmiare.
Il nonno Bepi era orgogliosissimo della sua vigna, che curava
incessantemente, percorrendola con il suo trattore ogni santo giorno durante il
periodo.
Oltre alle potature continue, alle cure anticrittogamiche, allo zolfo da passare dopo ogni pioggia da un
certo punto della stagione, perché non attecchisca la peronospera, il nonno
zappava costantemente d'estate un’ora dopo la mungitura prima che il sole andasse a
monte, perché la base delle viti fosse libera e neanche un filo d’erba potesse
togliere l’acqua alla vigna e nelle estati calde si lavorava anche di notte per irrigare la vigna. Tra i filari aveva piantato alberi da frutta
che non avevano uno sfruttamento commerciale, ma amava potessero non mancare sulla nostra tavola.
C'erano tra i vitigni di cabernet e verduzzo qualche pianta di uva regina da tavola, di uva cardinale e di moscato, mitico vitigno della sua amata terra perduta.
Il contadino, come ogni lavoratore sano, cura la terra con amore e
passione, ed ella ripaga con generosità elargendo abbondanti frutti se il
lavoro è di qualità. Nonno stava con il cuore sospeso tutta la stagione, da
primavera a settembre e qualche volta anche ottobre, quando la vendemmia era tardiva, perché c’era sempre in
agguato la peronospera e la grandine. Ricordo le giornate d’estate quando
arrivavano i temporali: ci sedevamo sul sedile del tino e nonno guardava la
pioggia. Se arrivava la tempesta mormorava sconsolato “Povere le mie fatiche!”.
Potete immaginare come era il suo stato
quando si arrivava alla vendemmia: nervoso e scattante, impaziente di portare
in salvo il raccolto. Allora si era pronti per iniziare.
Prima della vendemmia c’era tutto un lavorio di preparazione: dopo
ferragosto si imbiancavano le pareti del portico con la calce bianca si
spostavano i tini che venivano lavati con la soda solvay e l’acqua calda, i
fondi erano riempiti d’acqua affinché il legno si gonfiasse per rendere la
botte impermeabile. Alcune botti prima del lavaggio avevano bisogno di maggior
manutenzione, sostituendo doghe logore: era
un gioco magico, quello che il nonno faceva. Sotto i colpi sapienti con un martello speciale dalla lama a taglio sul cerchio e con la mazzetta batteva
ed il cerchio cadeva lasciando libere le doghe che si aprivano a spicchi sul
selciato. Dopo averle riparate ripeteva nel senso inverso l’operazione e
picchiava sul cerchio fino a posizionarlo nel
posto giusto affinché le doghe rimanessero ferme e stabili. Poi venivano preparati gli orci, i secchi, le
forbici affilate, il carro pulito e chiuso con le sponde e l’interno rivestito
di un telo impermeabile ben lavato per non perdere il succo dei grappoli che sotto il peso
dell’uva caricata si spandeva.
Lavorare incessantemente dal mattino fino al tramonto in vigna non era
un lavoro leggero. C’era da star attenti alle mani del dirimpettaio che lavorava dall’altra parte
della fila, nascosto dalle foglie delle viti, i secchi si riempivano, alcuni
anche in fretta ed il peso affaticava, poi il nonno o gli zii a turno
svuotavano nel carro l’uva.
S’iniziava la mattina dopo una buona merenda, fino a mezzogiorno per
il pranzo, che finiva con un buon caffè, si riprendeva fino alle 16.00 per
fermarsi per un altro caffè e poi a sera si smetteva e ci si lavava per la
cena. La tavola era enorme e ben imbandita. Per la vendemmia si iniziava il
secondo prosciutto che accompagnava il formaggio delle nostre mucche nelle
merende dei vendemmiatori. Mamma era addetta alla cucina e sfornava piatti succulenti: era il periodo in cui si mangiava meglio, come alle feste! La sera si andava stanchi a letto e quando
chiudevamo gli occhi le retine ci rimandavano le immagini di grappoli elaborate
durante il giorno! Diventava un’ossessione! Ma che soddisfazione per i miei nonni quando il raccolto era abbondante e sano! Potete constatarlo voi stessi in questa foto del 1970 : nonno in piedi (61 anni), davanti a lui la bisnonna (81 a), poi accovacciata la nonna(58 a) e mia madre (38)seduta per terra.
Quando il carro era pieno veniva portato via: alla cantina sociale se
dovevamo vender l’uva, oppure veniva vuotato nei tini, per poi essere passati
nella diraspatrice. Prima di avere la
diraspatrice, si pigiavano i grappoli con i piedi nei tini, che poi venivano ripassati
per togliere anche gli ultimi acini con un gran tamiso (setaccio)formato da delle corde incrociate a rete fissate su un quadrato di legno, sufficentemente largo da appoggiarlo sui tini mentre i grappoli venivano raspati
sulle corde.
Ogni giorno poi, mattino, sera e pomeriggio il nonno saliva sulla
mensola dove poggiavano i tini e con un bastone a cui era attaccata una
tavoletta rettangolare “rompeva” la superficie compattata dagli acini nella
fermentazione. In questo modo le vinacce venivano ossigenate uniformemente e le bucce non rimanevano a galla troppo tempo per ossidarsi, infatti è l'ossidazione eccessiva che da un sapore astringente al vino.
Dopo il giusto periodo di fermentazione, un paio di giorni o più a
seconda se uva bianca o nera, veniva aperto il tappo inferiore alla base del
tino ed il mosto veniva passato in tinozze basse e larghe che prendesse
aria, poi veniva travasato in botti di legno, filtrandolo per liberarlo da
eventuali impurità. Le vinacce venivano tolte per ultime, poste
nel torchio e pressate a rilasciare tutto il succo restante, che filtrato
passava nelle botti, mentre le vinacce esauste erano raccolte in sacchi di
juta e vendute alla fabbrica di liquori PAVAN (che non esiste più) per la
distillazione della grappa.
A questo punto c’era una serie di querelle tra il nonno e la nonna per
l’ “aggiustamento” : c’era da dosare la
giusta dose di bisolfito per sterilizzare il vino ed al caso aggiungere un po' di zucchero per "aiutare" il grado e nonna correva ansiosa e
prepotente domandando pareri ed elargendo reprimende al nonno che come un
panzer, faceva il suo ed ogni tanto la redarguiva con un “ti, tasi” (taci tu) quando stava
esagerando.
Ricordo anche l’operazione di "profumazione" del vino: in un alambicco
di ferro veniva posto un piccolo braciere con zolfo puro fatto
bruciare: si metteva un'ora circa o più -non ricordo bene- prima di chiudere le botti appena travasato il vino, per disinfettarlo,
dato che lo zolfo è l’antibiotico naturale per eccellenza, e per togliere l'ossigeno eventuale. L'operazione veniva ripetuta nei mesi successivi nelle botti da cui si era tolto parte del vino, se la rimanenza doveva restare ancora dentro per un po', affinchè non diventasse acido.
Solo quando la cantina si riempiva di botti ed i tini venivano lavati
e riposti, il nonno si rilassava : la stagione seguiva con i tre grandi travasi: uno dopo 10-15 giorni, l'altro a novembre-dicembre, il secondo prima della fioritura della vigna, perché quando la vigna fiorisce il vino nelle botti ritorna ad una piccola fermentazione. I travasi servivano per eliminare i depositi della fermentazione, la cosidetta "feccia", per schiarire il vino e farlo maturare correttamente prima di poterlo mettere in tavola. Allora il nonno prendeva il bicchiere come se tenesse un tesoro:
annusandolo e sorbendolo, gustandone fino il fondo l’aroma.Allora era un piacere vederlo rimirare soddisfatto la sua opera, mentre poggiava il bicchiere vuoto, e con solo un mezzo sorriso per verecondia, mormorava sottovoce “questo si,
che xe (è) un bon vin!”.
In vena di ricordi, ho passato in rassegna i personaggi che nella mia infanzia bussavano alla nostra porta.
A parte il portinaio, un vecchio
ex-pompiere di Fiume, che veniva a bussare e portare un mazzetto di fiori a mia
madre per ottenere in cambio un buon bicchier di vino dei miei nonni, che lui
stimava molto, agli spazzini e spazzacamini che venivano per le feste a
raccogliere le mance, ricordo una serie di personaggi che arricchirono la mia
infanzia di figure pittoresche.
La prima era Irene, carsolina
mingherlina, di carnagione scura, molto energica, che con un fazzoletto a forma di cuscino in testa saliva le scale di casa nostra con il bidone del latte in equilibrio sul capo, mentre il carro aspettava in strada. Suonava di buon
mattino alla nostra porta, tirava giù il bidone dalla testa, lo metteva sotto
braccio per mescere il latte nel contenitore graduato di alluminio e da lì nella nostra pentola. Parlava
poco e tradiva il dialetto sloveno delle alture. Saliva e scendeva scale
infinite per le vie fino a vendere tutto il suo prodotto. Era molto nervosa e negli anni assunse anche dei tic agli occhi, che noi bambini maldestramente imitavamo per ridere! Il suo latte era buonissimo e noi seguivamo
il raffreddamento dopo la bollitura, leccandoci i baffi al vedere la ricca “panna” che poi ci contendevamo.
Altro personaggio che bussò alla
porta all’epoca era il fotografo, che proponeva di “colorare le fotografie in
bianco e nero”. Era una gran novità per l’epoca, tutto era ancora in bianco e
nero: giornali, riviste e televisione. Ma lui, prendeva una foto,chiedeva il colore dei vari particolari e riportava
un ingrandimento con colori pastello, che rendeva il tutto molto surreale, incorniciandolo
in una pesante cornice di madreperla. Era la moda: tutte le famiglie dell’epoca
sfoggiavano la foto dei loro bimbi “a colori”, come oggi sfoggia l’iPhone!
Ricordo poi la figura dell’assicuratore che in famiglia
chiamavamo “in caso di decesso”, in quanto era la frase che pronunciava quando
voleva sottolineare i “benefici” della polizza vita, facendo valere il fatto
che per ora pagare le rate era un sacrificio, ma che il beneficio si sarebbe
visto “nel caso di decesso”, il tutto mentre Mamma con le mani dietro alla
schiena faceva le corna! Ironia della sorte volle, che ne beneficiammo nel 1974
quando a soli 42 anni Mamma morì: “in caso di decesso” non era più tanto
ridicolo, ma una triste realtà.
Ma le figure più belle della mia
infanzia erano i rappresentanti di enciclopedie, che trovarono in casa mia un
facile terreno di vendita, dato che i miei amavano leggere ed avevano cura
della nostra cultura. Così alla nostra porta si avvicendarono tante figure. Il
primo non lo ricordo molto bene, perché ero molto piccola, da lui Papà prese i Classici Azzurri, venticinque libricini che raccoglievano il meglio della letteratura italiana e straniera ed il
MILIONE, dizionario geografico in parecchi volumi, enormi, di un bel azzurro,
mi appassionò quando diventai più grande. Ricordo che alle superiori feci una
tesina d’Italiano sulla condizione delle donne Africane, portando un argomento
attualissimo (erano gli anni della contestazione femminista) e soprattutto non
avevo avuto necessità di attingere alla biblioteca! Oltre che alla Geografia
Fisica, Politica, Economica, questa enciclopedia da la descrizione dettagliata
della Storia e delle maggiori città, inoltre ha per ogni paese una sezione di
Usi e Costumi, attraverso le epoche e dei giorni nostri, che leggevo con passione ed interesse, perché mi facevano viaggiare con la mente. Altra enciclopedia della
mia infanzia fu il CONOSCERE – Enciclopedia per ragazzi, da cui attingemmo a piene mani durante le prime classi.
In seguito arrivò un’agente, che
mi piacque molto. Era una donna di una certa età, non tanto alta, magra,
vestiva con gusto, leggermente truccata, con i capelli lunghi biondo-cenere acconciati raccolti alla nuca in un moderno ed elegante chignon, parlava in dialetto con una certa
impostazione, senza apparire troppo “artefatta”, era cordiale, sorridente. Le
sue visite mi incuriosivano, da lei Mamma comprò il DES – Dizionario Enciclopedico
Sansoni, il Leonardo, rivista scientifica. Inoltre
acquistò anche la collana della Medusa, dei bei libri dalla copertina Verde, una
raccolta sulla natura con dodici libri dedicati agli
animali a seconda della specie di appartenenza con relative schede dell’anatomia
e foto dal vero; poi anche un’altra enciclopedia fotografica, di cui ricordo
solo il volume sui gatti e sui cani, da cui imparai le razze, perché sfogliavo
e mandavo a mentei varinomi.
Successivamente arrivò l’agente
dell’UTET , da cui s’ iniziarono ad acquistare i libri Universitari. Mio
fratello acquistò l’intera Enciclopedia Medica con tutti gli aggiornamenti fino
ad oltre il duemila, l’Enciclopedia Veterinaria e quella Astronomica.
Acquistare libri fu quindi un
imprinting che ebbi dalla mia prima infanzia. Quando –non avendo ancora la
televisione- spesso perdevamo ore a leggere e nel mio caso, guardare le
fotografie e le figure, per passare il tempo e sognare.
D'inverno c'era poi il venditore di mestoli che scendeva dalla Carnia per vendere i suoi prodotti e raccimolare qualche lira. C'era anche l'arrotino, che oltre ad affilare le forbici ed i coltelli, riparava le vecchie ombrelle rotte.
Gli ultimi sulla scena I Mormoni ed i Testimoni di Geova, a cui, ormai forniti di spioncino, non aprimmo più!
Il 16 agosto
1974 iniziai a lavorare ad un mese dal diploma. Il mio principale, il dott. A.,
era un uomo alto ben piantato con i capelli sale e pepe, ben pettinati, due
favoriti alla Gengis Khan, la voce profonda, gentile, con una leggera zeppola.
Quando parlava in pubblico era padrone della scena con semplicità ed eleganza, parlava a braccio correttamente in quattro lingue, ed era così carismatico, da mettere tutti gli ospiti a
loro agio. Eclettico ed intelligente sapeva sostenere una conversazione
interessante con chiunque, sia che fosse l’uomo della strada, che il fisico
nucleare.
Per darvi
un'idea del suo carattere e delle sue capacità dovete sapere che aveva conseguito
in un collegio svizzero, il diploma dell'accademia commerciale. Di ritorno in
Italia per iniziare l’Università, avendo 17 anni dovette aspettare un anno. Ma il
padre gli chiarì subito la situazione : "se speri di bighellonare e perder
tempo con gli amici perdigiorno in questo anno, sbagli di
grosso: da domani prendi lezioni private ed a giugno darai la maturità
classica!" Fu così che imparò il Greco, perfezionò il Latino e le altre materie del quinquennio classico e superò a
pieni voti l'esame di maturità!
Al servizio di leva scelse di andare in aviazione e disse al padre
di voler prendere il brevetto di pilota. Il padre glielo negò dicendo, che secondo lui i piloti erano tutti disperati
che non avevano voglia di vivere e per dimostrargli che non fosse un problema
di denaro, devolse il costo del brevetto in beneficenza. Ma il dott.A.
non si arrese, iniziò a dare lezioni, a vendere traduzioni di greco e latino,
raccimolando il costo del brevetto e conseguendolo a 21 anni nonostante la contrarietà
del padre.
Arruolatosi
volontario in guerra come pilota di caccia, scelse di affiancare la RAF nelle
forze di liberazione, quale appoggio alle navi di rifornimento. Conseguì la laurea di Economia e Commercio, come pure quella di
Scienze Politiche e di Diritto, effettuando anche l'esame di stato quale
Dottore Commercialista.
Alla fine del conflitto tentò d'intraprendere la carriera
politica, ma la sua dirittura morale non gli permise di
cedere ai vari compromessi dell'ambiente. Nel 1948 abbandonò l'amata aeronautica, per coadiuvare il padre nell'attività commerciale di agente di caffé, droghe e coloniali, che portò a
livello di fama mondiale, sebbene fosse solo una ditta familiare e molto
piccola.
Per spiegarvi
la singolarità dell'uomo vi racconto ancora un aneddoto. Dovete sapere che appena indipendenti, negli anni
sessanta i nuovi stati Africani, volendosi affrancare dai mercati dei Paesi colonizzatori cercarono nuovi sbocchi commerciali. La C.E.E. nell'ottica di un trattato di collaborazione, li favorì facendoli partecipare gratuitamente alle Fiere di tutta Europa. Serviva una persona capace di affiancarli ed a
Trieste fu scelto il dott. A. per la sua esperienza commerciale e conoscenza linguistica, tanto che li accompagnò per un quinquennio alla Fiera di Trieste,
alla Fiera del Levante di Bari a quella di Milano ed anche a quella di Lubiana a cui affluivano espositori da tutta l'Europa dell'Est.
Fu così che a Lubiana sul
finire degli anni '60 il dott. A. al bar dell'albergo stazionava in attesa
di passare da una conferenza all'altra, attorniato dalle Delegazione
Africana, che intratteneva al tavolo parlando in francese ed inglese,
fumando un Montecristo, davanti ad un wishky con ghiaccio. Veniva chiamato e chiamava
al telefono in continuazione parlando in tedesco ed italiano ed azzardava con
il giovane barman qualche frase di sloveno, imparato dai cacciatori d'oltre
confine. Il giovane barman era esterrefatto: un personaggio simile non lo aveva
visto nemmeno nei film americani. Fu al culmine dell'ammirazione quando vide il
Dott. A. con il Gen. Tito e la first lady, Jovanka, mentre illustrava loro la
missione delle Delegazioni ed i prodotti presentati agli stand.
Un commerciante
di Trieste di ritorno da Lubiana, nei primi anni del 2000, mi ha riferito di
aver incontrato per caso quel barman, che sentendo che era di
Trieste gli aveva chiesto se conoscesse il dott. A. e se fosse ancora vivo,
raccontandogli ciò che aveva visto e ripetendo l'ammirazione per la sua disinvoltura ed il suo carisma.
Come
Presidente di un'Associazione Europea del Caffé indisse una "Crociera del
Caffé" : era il 1986. Con l'aiuto dell'avallo di Pericle Lavazza, la Costa
mise a disposizione una nave e l’impegno del viaggio, previa la firma di una
fideiussione da capogiro. Fu un periodo frenetico, di raccolta d' adesioni e d'
organizzazione ed il dott. A. stette parecchi mesi sulle spine, perché gli americani dettero forfait all'ultimo minuto : dopo l’attacco terroristico all'Achille Lauro del 1985, in cui fu ucciso
un cittadino americano in carozzella, il Mediterraneo non era considerato luogo sicuro per loro. Ma nonostante questo la Crociera ebbe
una buonissima affluenza di passeggieri e fu un successo enorme!
Il mio principale era un mito. Per la sua capacità e la sua vitalità, noi , "ragazze" dell'ufficio, lo soprannominammo Highlander, dato che si ritirò solo a 88 anni!
Gli ultimi 2 anni furono molto
difficili: nel 2004 dopo una brutta polmonite ebbe un crollo enorme. Aveva 86 anni e l'inizio dell'Alzheimer e la depressione lo costrinsero a lottare con molta fatica perché non voleva arrendersi e continuava a venire due volte al giorno in ufficio per continuare a lavorare e sentirsi vivo! Poi il tracollo nel 2006, una brutta caduta, che lo fermò a casa. Avevamo lavorato gomito a gomito per ben 32 anni, mi aveva preso sotto la sua ala e guidato nel meraviglioso mondo del caffé aiutandomi a crescere professionalmente: avevamo bevuto assieme più di 17.000 caffé!
Si spense serenamente a 90, nel 2008, servito e riverito come sempre, dopo aver
bevuto il suo ultimo caffé.
14 - 15 agosto 1947-2012 65° ann. indipendenza India
“If we could change ourselves, the tendencies in the world would also change. As a man changes his own nature, so does the attitude of the world change towards him. …
We need not wait to see what others do.”
Se potessimo cambiare noi stessi, le tendenze nel mondo cambierebbero di conseguenza. Come l'uomo cambia la propria natura, così cambia l'attitudine del mondo nei suoi confronti.
Non abbiamo bisogno di aspettare per vedere cosa fanno gli altri.
Mahatma Gandhi
Perché proprio questa canzone ? Il ritmo mi piace, l'alternanza degli artisti è un melodico fluire, che mi mette allegria.
Ho iniziato a conoscere l'India negli anni sessanta, quando mia madre sarta, confezionava i capi ascoltando la vecchia enorme radio Telefunken ed una sera in cui giocavo vicino a lei, davano una commedia che narrava la vita di Gandhi. Le parole il racconto drammatico ed il dolore per la morte del Mahatma mi colpirono molto e chiesi a mamma ulteriori spiegazioni, andando poi sull'enciclopedia IL MILIONE a vedere e leggere altre curiosità di quel lontano Paese.
Poi ci fu il film appassionante Il Giro del Mondo in 80 giorni con uno splendido David Niven ed una giovanissima Shirley MacLane a riavvicinarmi a quei posti fiabeschi ed in seguito la moderna serie di Sandokan, ispirata da Salgari con la descrizione delle giungle Indiane, dei palazzi fastosi dei marajah.
Tutto fu sopito nell'adolescenza con gli anni di piombo, ma con la mia assunzione nel 1974 riscoprii di nuovo l'India. Dapprima attraverso i telegrammi cifrati che le nostre corrispondenti inviavano con offerte o risposte ai nostri ordini. La corrispondenza per via aerea era all'ordine del giorno, sulle buste bellissimi francobolli facevano mostra di Gandhi, Indira, paesaggi e prodotti Indiani. Aprirle era un dramma, perché la colla era talmente sigillante, che spesso la busta era appiccicata alla leggera carta da lettera o si rischiava di tagliare non solo il bordo, ma anche una parte della lettera. Poi i telegrammi diradarono iniziò l'era del telex e nel giro di un anno tutti gli Indiani comunicavano con noi direttamente: era una specie di Skype ante-litteram, dove si colloquiava scrivendo a macchina (invece che a voce) ed essendo in contemporanea si poteva portare avanti una trattativa durante una trasmissione che poteva durare quanto si voleva, un paio di minuti come anche molto di più. Ovviamente le distanze dettavano il costo della trasmissione. Dall'avvento del telex, la corrispondenza cartacea fu limitata ai puri contratti originali ed alle copie dei documenti d'imbarco. Le distanze ed i tempi si erano accorciati, mentre al telefono ci vollero 5 anni prima che la teleselezione Italiana fosse automatizzata e non si dovesse passare per il centralino delle chiamate intercontinentali (il 15) al quale eravamo costretti comunque a fare numerosi solleciti prima di ricevere la linea!
Sfogliando i codici per tradurre i telegrammi cifrati, usati per scongiurare la concorrenza e lo spionaggio commerciale, la mia giovane mente fervida correva ad immaginare dando ai loro volti una dimensione fisica, ma tutto era ancora lontano.
Nel 1976 due nostre grosse mandanti bloccarono la loro collaborazione : era morto il patriarca e i due fratelli avevano avuto un diverbio a colpi di pistola per l'eredità! Uno era finito in prigione per aver sparato al fratello maggiore: ovviamente non lo aveva colpito, il gesto era stato una mera simbolica presa di posizione. Ci fu una causa, il magistrato bloccò i conti di tutte e due le ditte, che per anni rimasero congelati. Ma in pochi mesi i fratelli fondarono due nuove società e ripresero gli affari. I due fratelli vennero separatamente in Italia e continuarono a venire una volta all'anno ed ebbi modo di conoscerli direttamente. Diversissimi uno alto magro capelli bianchi, l'altro leggermente più basso, tarchiato con i capelli neri placcati dal gel. Nulla faceva trasparire la violenza tra i due nei loro modi da gentlemen anglo-indiani
Tra i due litiganti il terzo gode ed in quel tempo emerse un nuovo partner commerciale. La ditta era sorta nel 1865, copriva tantissimi articoli commerciali: carne di bufalo, piselli, ceci, frutti di mare e pesci congelati, spezie, frutta e verdura secca e conservata, pellame, grasso animale e recentemente hanno introdotto i prodotti congelati ed aperto anche una linea di alimenti per animali e confezioni di cibo precotto in buste per la vendita al dettaglio. Aveva due enormi edifici a Mumbai (Bombay), ma il loro reparto caffé era ancora poco affermato in quanto decentrati rispetto alle zone di produzione. Dato che il mercato del caffé alla fine degli anni '70 aveva preso a salire, crearono una filiale a Bangalore ed inviarono negli anni '80 il loro manager per farsi conoscere dai clienti. Mr. N. era di pelle scura, alto sul metro e settanta, magro (allora) , sorridente. Ero andata a bere un caffé alla Portizza e lo trovai davanti al portone dell'ufficio con due valigie enormi e l'ombrello in mano, che poi appese per comodità sulla schiena inserendo il manico nel colletto. Lo vidi smarrito e gli chiesi se venisse a trovare noi: una fila di denti bianchissimi gli illuminò il volto ed entusiasta per averci finalmente trovato mi seguì pimpante nel grande ingresso, all'ascensore fino al nostro ufficio.
Quello fu uno dei tantissimi viaggi che il signor N. fece, perché lo ripetè ogni anno, come costume tra tutte le società Indiane che intrattengano rapporti commerciali con importanti clienti all'estero. Questo serve loro per raccogliere eventuali spunti per migliorare non solo il raccolto, ma anche il servizio al cliente. L'Indian Coffee Board, che regola tutt'ora i termini e le regole per l'esportazione del caffé Indiano e controlla tutti i produttori, gli esportatori, fungendo da organo di riferimento anche per gli importatori nel dirimere le contestazioni ed i reclami commerciali, fu il primo organismo governativo di un Paese Produttore che si convinse dell'importanza del controllo qualità e del suo miglioramento. Istituì già negli anni '80 un ufficio ad hoc per la supervisione e la degustazione della produzione, nonché dei campioni respinti dai clienti per valutare come poter migliorare la qualità. A capo una donna, elegante, i tratti molto fini, magra le mani affilate, il sorriso dolce e sereno. Negli anni si affrancò dal CBI ed ora gestisce un proprio laboratorio che le grandi case torrefattrici usano per avere la certezza di ricevere un prodotto di qualità. Ha combattutto e vinto il cancro, ha due figlie e ringrazia sempre la madre che le ha potuto permettere di portare avanti il suo lavoro.
Ma il racconto più suggestivo e pittoresco dell'India moderna, me lo diede il capo ufficio acquisti di un nostro cliente torrefattore, che andò dal 1995 fino al duemila nell'ufficio del sig. N. per concordare e seguire un contratto a lungo termine di fornitura. Mi raccontò che l'ufficio di N., pur appartenendo ad una delle più grandi ditte esportatrici dell'India in realtà a Bangalore consisteva in una stanza/magazzino a pian terreno pieno d'impiegati e che data la confusione e l'affollamento lui aveva spiegato alla figlia di N., che fungeva da segretaria al padre, in cosa consisteva la cernita dei chicchi difettosi da parte della sua ditta, usando come "tavolo" il marciapiede con un cartone sopra: ne rimasi stupita, ma non tanto quando lessi "La città della Gioia". Non crediate che i volumi di vendita all'epoca fossero limitati! La succursale di Mr. N. era diventata la prima esportatrice Indiana dopo circa un decennio imbarcava da sola a stagione 600.000 dei 5 milioni di sacchi prodotti in India. Il meccanismo è di raccolta del caffé nella loro stazione di lavorazione del prodotto affluito da vari produttori. Dopo la selezione, vengono riempiti i sacchi e portati in camion fino al terminal container di Cochin oppure -in stagione di monsoni- di Madras. Qui vengono caricati in containers che su piccole navi feeder arrivano a Ceylon dove vengono trasbordate sui grandi piroscafi di linea.
Ma se da una parte alcune strutture Indiane erano discutibili, le telecomunicazioni lavoravano meglio delle nostre ed anzi ho visto sempre i manager Indiani con apparecchi migliori dei nostri : il primo Galaxy Samsung l'ho visto in mano ad un Indiano (figlio di quello che aveva sparato, di cui sopra :), quando da noi appena se ne ipotizzava la futura vendita.
Tutte le ditte Indiane quando sposavano i figli, ci inviavano le partecipazioni di nozze. Uno tra i più prestigiosi inviò il biglietto per DHL con una scatola (35x10x35cm ca.) di legno di sandalo ed altre essenze di colori diversi, piena di dolcetti tipici Indiani. Fummo deliziati dal contenuto, che per soddisfare la nostra curiosità il mio vecchio titolare e mentore, divise con tutte con noi impiegate (negli anni '90 eravamo 4). Dolcetti al cocco, all'anacardo, ai pistacchi, alle mandorle, legati con fili finissimi e regolari di zucchero caramellato, pasta di mandorle ed altro erano deliziosi e portavano un sapore nuovo nella nostra esperienza.
Ma questa è storia "moderna" : quando io iniziai a lavorare nel 1974 l'esportazione del caffé Indiano in Italia era un segmento minimo.
La maggior parte della produzione Indiana, in quegli anni, andava al loro più grande compratore l'URSS, che resta tutt'ora un partner importante, tanto che nelle pagine web dell'Indian Coffee Board ne troverete una dedicata solamente alle regole con le limitazioni e le specifiche di qualità ammesse per l'esportazione in Russia!
Negli anni sessanta, settanta ed inizi ottanta erano in voga gli affari "barter", dove i produttori effettuavano un mero scambio commerciale : caffé in cambio di macchinari industriali od altri semi-lavorati di cui erano all'epoca sprovvisti. Ci vollero decenni dopo l'indipendenza per l'India sebbene nelle liste dei paesi Non-Allineati, per affrancarsi dal colosso sovietico a loro vicino.
Ma una delle maggiori peculiarità del mercato Indiano resta il caffé Monsonato. Il caffé come ben sapete è un alimento igroscopico : ha la capacità di assorbire l'umidità in modo istantaneo. Famose erano le frodi sul peso di partenza : alcuni filibustieri facevano versare secchi d'acqua sul pavimento dove stazionava il camion carico di caffé prima della partenza la sera prima. La pesata al mattino era maggiore per l'esposizione all'umidità. Quando il camion arrivava bastavano un paio di giorni perché l'umidità svaporasse ed il compratore si trovava con un calo peso eccedente quello naturale. Ne beneficiavano i venditori che si facevano pagare sul peso di partenza.
Ma per l'India questa particolarità organolettica del caffé fu l'incentivo a ricreare con cognizione di causa una situazione naturale. Con il blocco del Canale di Suez nel 1956 le navi mercantili dovettero circumnavigare l'Africa. All'epoca i sacchi di mercanzie venivano imbarcati alla rinfusa nelle stive delle navi ed erano alla mercè del tempo atmosferico: le temperature tra i Tropici e l'Equatore facevano si che assorbendo l'umidità i chicchi si ingrossavano e scolorivano, acquistando un sapore particolare. Fatto sta che alla riapertura del Canale di Suez il viaggio più corto non favoriva più tale cambiamento nel caffé, ma la richiesta rimase e venne sollecitata da parte di parecchi torrefattori affezionati al gusto che la bevanda prendeva: più morbido e cioccolatoso.
Gli Indiani si accorsero, che lo stesso fenomeno incorreva nel caffé che restava sulla costa al tempo dei monsoni: pensarono allora far stazionare appositamente alcuni quantitativi di caffé sulla costa facendo acquisire ai chicchi la caratteristica gonfiatura e sbiadimento che precedentemente si otteneva durante il lungo viaggio in mare. Nacque così il caffé Monsonato.
Però la gran parte del raccolto, non ancora venduto, veniva trasferito dalla costa (Mangalore) alle alture (Bangalore) per evitare la degenerazione del caffé. Ed è a Bangalore che gli esportatori si stabilirono a partire dagli anni '80 per evitare i monsoni, in quanto aumentando la produzione e l'esportazione verso altri paesi consumatori, non essendo più tanto legati alla fornitura all'URSS, dovettero diluire le vendite nel corso di più mesi. Si era infatti affermato uno dei più grossi Paesi Produttori: il Vietnam, che dopo la pace di Parigi ebbe uno sviluppo commerciale talmente ingente da diventare in meno di un decennio uno dei più grandi produttori di caffé e per la competitività dei prezzi e la necessità di sviluppo industriale per acquisire semi-lavorati ebbe accesso anche al mercato sovietico.
Attualmente il Vietnam è il secondo Produttore mondiale con 1.279.500 tonn./anno, a fronte della produzione del Brasile, che è il primo, con 1.785.175 tonn./anno, mentre l'India ne ha solo 340.660 tonn.
Ma come nasce la coltivazione del caffé in India? Narra la leggenda che il monaco Bababudan volle far partecipi i suoi connazionali del beneficio della bevanda durante la meditazione e portò con se dallo Yemen 7 chicchi di caffé che furono piantati in 7 zone dell'India che divennero altrettanti distretti di caffé.
In realtà le sette zone hanno peculiarità ben precise, date dalle differenti condizioni di terreno e di coltivazioni vicine a quelle del caffé e date dallo sviluppo in tazza delle diverse varietà (la Kent, la migliore, che si coltiva anche in Kenya ed in Jamaica, la S.795, una derivazione dalla varietà Kent, prediletta per il particolare aroma dai produttori di caffé arabica, la Sln.9 -selection 9- una varietà nata dall'arbusto Tafarikela dell'Etiopia (di cui mantiene la caratteristica dominante nell'aroma di tazza) con l'ibrido di Timor (arbusto molto resistente alle malattie ed alle avversità atmosferiche), ed il Cauvery o Catimor, ibrido tra il Caturra bourbon e l'ibrido di Timor, che in questo innesto ha la meglio, dando una tazza leggermente inferiore rispetto agli altri, ma con il pregio di aver reso la varietà molto resistente alle malattie).
Per 400 anni la coltivazione del caffé è stata un continuo evolversi ed espandersi. Mentre in alcuni paesi per mancanza di mezzi (Ethiopia, Indonesia ecc) le coltivazioni sono rimaste parte integrante della foresta pluviale, in altri Paesi più progrediti s è preso a coltivare i campi completamente spogli solo a caffé. Nel corso degli anni gli agronomi si sono resi conto che la foresta pluviale forniva un microcosmo ecologico che proteggeva gli arbusti di caffé. Inoltre in alcuni Paesi come il Salvador dove le piantagioni sono state ripiantate sulle falde degli altissimi vulcani, hanno avuto la necessità di essere protette dai venti che soffiano e per questo i coltivatori hanno accerchiato le coltivazioni di caffé con altissimi alberi di leguminose. Ha preso piede così la famosa "coltivazione all'ombra". Gli Indiani presero immediatamente atto della convenienza di preservare il terreno dall'erosione e ridurre l'impatto biologico di una deforestazione del territorio, ma volendo mantenere le piantagioni di caffé non solo hanno intensificato le coltivazioni all'ombra dei grandissimi alberi nella giugla esistente, ma l'hanno creata dove era stata estirpata. Il Caffé è quasi totalmente affiancato ad altre coltivazioni, diverse di regione in regione, e nel rispetto dell'equilibrio naturale diminuendo l'uso dei pesticidi. Inoltre favorendo la fertilizzazione naturale, sono riusciti ad eliminare quella chimica. Eccone una foto dal web.
Nelle varie regioni a seconda dei raccolti affiancati il gusto del caffé prende varie caratteristiche organolettiche che identificano il distretto di produzione proprio per l'aroma speziato o fruttato.
Il fogliame che vedete arrampicarsi sui tronchi degli alberi, altro non è che la pianta del pepe.
Nei primi anni del 2000 il Coffee Board ha emesso un video, e guardandolo ho scoperto che le coltivazioni di caffé Indiano fanno rivivere l'India di Kipling, specie durante il raccolto con file di donne nei loro coloratissimi sari al lento ma costante ritmo scandito dal loro canto melodioso. E guardando questo quadro sembra che il tempo si sia fermato ed è una gioia perdersi lasciandosi cullare dal loro canto che cadenza i gesti ed i passi, ripetuti da centinaia di anni, stagione dopo stagione, anno dopo anno, come un rito antico e pieno di poesia.
Qui invece vi presento un breve e recente filmato del Coffee Board of India, che ho trovato in youtube, dove un Italiano, Mario, viaggia di regione in regione alla scoperta delle varie qualità di caffé, potete leggere brevi cenni sul territorio e seguire le spiegazioni (per chi conosce l'inglese) del Coffee Swami (spirito del caffé) rappresentato da un chicco di caffé tostato vestito del copricapo e del costume caratteristico della zona in cui fa da guida al giovane. Il video è talmente elementare da risultare puerile e fa sorridere, ma vi farà scoprire qualcosa di più su quel meraviglioso alimento, che tutti chiamano "caffé" ma di cui solo noi Italiani abbiamo saputo estrarre il meglio con vero piacere!
Scusate la lunga digressione ed il saltar di palo in frasca, ma l'argomento dopo 36 anni mi emoziona ancora ed essendo stato parte integrante della mia crescita e della mia vita, ogni volta mi fa perdere di vista ogni misura... chiedo venia!
Sono passati 29 anni da quel giorno in cui siamo scesi dalle scale della Chiesa, marito e moglie, dopo quasi tre anni di convivenza. C'era una leggera pioggia al mattino, l'aria era fresca, ma non fredda, quando uscimmo dopo la cerimonia, il sole iniziò ad uscire per splendere per tutto il pomeriggio. La foto è in controluce, ma l'ha fatta un esperto è comunque riuscita, non è la più bella, ma la più significativa.
Siamo scesi nelle difficoltà della vita così, sorridenti, nonostante tutto, ci siamo sostenuti a vicenda, una sottile complicità ci ha uniti sempre, anche quando eravamo distanti e vivevamo vite parallele per cause oggettive! Tu con l'eterna sigaretta in mano, io con i miei amati fiori ad ingentilire ed a riportare il sorriso anche nelle difficoltà.
In gennaio ti dissi che ero stufa di aspettare di restare incinta per sposarmi e se non ti decidevi, potevo anche ripensarci e scegliere una soluzione alternativa al nostro rapporto, perché avevo le scatole piene di avere tutti gli oneri di moglie, ma nessun beneficio!
Fatto sta che tu quel 16 gennaio mogio mogio, replicasti "Perché se non ci sposassimo, tu che faresti?" "Ma -risposi-, quel che mi pare, anche senza di te, visto che tu non ci tieni! " Mogio mogio "Ben allora, se proprio vuoi, facciamo le carte".
E fu in quei giorni che rimasi incinta ! In febbraio ne avemmo la conferma e la data fu facile da scegliere 23 aprile, San Giorgio!
Al solito non sono concisa, ma vorrei rendere ad onor del vero il clima che queste terre hanno vissuto.
Per capire la portata morale e fisica dell’esodo, bisogna
risalire alla fine della I Guerra Mondiale con la definizione dei confini, che
determinò l’inglobamento di zone di diversa origine nei paesi vincitori. In vari
stati sorse un movimento di omogeinizzazione nazionalista a scapito della
minoranza etnica, che doveva adeguarsi o emigrare: in Francia verso i tedesci dell’Alsazia, in
Polonia verso i tedeschi della Slesia, in Grecia verso i Turchi,in Turchia verso gli Armeni, in Italia
Mussolini fece la campagna in grande stile con l’italianizzazione dei
barbarismi nella lingua parlata, e nei cognomi stranieri (anche nel doppiaggio
certi nomi dei film americani fanno sorridere) la proibizione e la chiusura di scuole di lingua slovena e delle case di cultura slovena, nonché serbo croata nell'Istria di cui 60% della popolazione era Italiana il resto era croata, serba e di altre origini. In Jugoslavia (Regno di Serbia,
Croazia e Slovenia)la repressione venne a colpire gli Austriaci al confine
della Slovenia, ma anche le altre etnie croate e slovene, in quando la “Grande”
Serbia si considerava leader dominante. Fu così che prima della seconda guerra mondiale la
persecuzione serbo-jugoslava verso la popolazione croata, vide una pesante
azione dei terroristi croati, (cattolici e fascisti), i famosi e terribili ùstascia, che allestirono
campi di concentramento, ben prima di Hitler dove furono internati comunisti,
ebrei, zingari e serbi.Le stime dei
decessi di questi campi ùstascia secondo Simon Wiesenthal parla di 500.000
serbi uccisi, 250.000 espulsi, 250.00 convertiti al cattolicesimo in modo
forzato e di migliaia di ebrei e zingari uccisi. Ma il generale Tito comprese che la Jugoslavia nella II guerra mondiale doveva stare unita e fu l’unico
esponente militare che riuscì a riunire nelle proprie file croati e serbi,
anche se gli attriti tra le due etnie erano proverbiali e dovevano agire
separatamente. I campi di concentramento vennero usati dopo il ’43 per eliminare anche i soldati italiani reclutati nei
territori occupati e di cui alla fine non sapevano come inquadrare dovendo sbandierare il totalitarismo jugoslavo (capirete il perché leggendo in seguito) le loro condizioni alla liberazionone nel 1946 furono orribili, ma sono tutte documentate. Un conoscente reduce raccontò di secchi pieni di occhi umani strappati ai reclusi e tacque il resto!
Dal 1945 al 1946 ci fu quella che fu chiamata “La Grande
Corsa verso Trieste”, i militari di Tito fecero una sanguinosissima campagna,
terribili furono gli eccidi. L'italianissima Zara, la perla dell’Adriatico fu distrutta da 54
bombardamenti (!) , i Titini uccisero più di 2000 persone nelle foibe durante la sua conquista, dopo la sconfitta della strenua resistenza della mitica X Mas. All’occupazione seguirono ulteriori rappreseglie e molta
gente fu annegata in mare per accellerare l’eliminazione!Seguirono le sanguinose conquiste di Pola e
Fiume, e le milizie arrivarono a conquistare ed occupare una bella fetta di
territorio inclusa Trieste, sperando di potersela accaparrare anche dopo la
Guerra, inglobando nel proprio nuovo Stato gran parte del ricco territorio
della Venezia Giulia sede di numerose attività commerciali che avevano nel
porto franco di Trieste potenzialità enormi, (PUNTUALMENTE DISATTESE E REPRESSE DAL GOVERNO ITALIANO che tuttora vuole IGNORARE QUALSIASI SVILUPPO, ANZI LO OSTACOLA!) I Titini non si risparmiarono nulla in quanto crudeltà incluse
impalamenti di persone, torture e sevizie inenarrabili, fino alla morte di migliaia di uomini, ma
soprattutto anche di DONNE E BAMBINI e venne da loro stessi documentata!
Fatto sta che gli alleati arrivarono in regione, entrarono
in Gorizia con la legione dei nord-africani seminando terrore anche nella popolazione
inerme con saccheggi, ma soprattutto un
numero impressionante di stupri proprio come si ricorda nella Ciociara! Agl’Inglesi
non importava un fico secco della popolazione, mandavano i magrebbini d’avanguardia,
basta andare avanti.
Nella contesa delle nazioni, fu creata la linea Morgan, oltre la quale gli alleati chiesero a Tito di
retrocedere, facendo restare l'enclave di Pola (in basso nella penisola Istriana) quale territorio Italiano, perdendo definitivamente Fiume e Zara.
Ma il Generale voleva a tutti costi la parte più ricca quella
costiera dell’Istria a ricompensa di Trieste perduta. Nacque il Territorio Libero di Trieste, fu delineata una
zona A, sotto dominio degli alleati ed una zona B, sotto il dominio dei titini.
Gorizia venne divisa in due : storica, la casa il cui WC fu murato e rimase
nella zona jugoslava. La leggenda narra che il proprietario evacuasse in un
giornale e buttasse il tutto oltre il muro! L’involto veniva ributtato nella
parte italiana, i locali in un umorismo arguto dissero : non per le deiezioni ma
per la propaganda politica del giornale
in cui erano contenute!
Quando nel 1946 il trattato di pace di Parigi fu firmato, le truppe Titine lasciarono
Trieste, due ali di folla scortarono l’uscita
degli invasori e durante il tragitto le loro divise marron divennerobianche di sputi che la popolazione lanciava
loro addosso!
A quel punto Tito giocò il tutto e per tutto,voleva che la zona B restasse per diritto di
etnia alla Jugoslavia, nonostante l'evidenza precitata del censimento fatto ai primi del secolo. Egli favorì l’integrazione
di serbi e croati nelle zone dell’Istria facendoli migrare, proibì la lingua
italiana ed il suo studio nella zona, represse ogni rivolta o sentore di
rivolta. Terrorizzò la popolazione italiana dominandola acciochè non sventasse
il suo bluff. Vennero indette manifestazioni di massa alla visita delle
autorità alleate per dimostrare la preponderanza jugoslava, rosicchiando ulteriori territori ad est.Tutte le imprese commerciali vennero requisite come indennizzo di guerra ed i proprietari, come mio padre dovettero cedere gratis la proprietà delle proprie
imprese, lavorando per mantenerle in attività ma come “stipendiati” con una misera paga per conto del governo
jugoslavo. Oltre alla repressioneculturale, continuò la repressione fisica delle foibe, e tutti ebbero il terrore di parlare anche con
i vicini di casa per non incorrere nella delazione. Le milizie titine
irrompevano nelle abitazioni civili, requisivano quanto potevano portare via,
rompevano ciò che andava loro a genio o non potevano trasportare. Nonno, già
malato di cuore, morì a 53 anni, dopo aver subito soprusi ed incursioni nel
nostro oleificio e nel nostro mulino da parte dei dominatori titini che requisivano
farina e olio e rompevano orci,
squarciavano sacchi di farina, secondo il loro umore. I contadini nell’allevare e coltivare
dovevano vender tutto a loro, ricevendo un quarto del valore di quanto prodotto
e chi protestava sapeva che poteva passare per le armi!
Fu così che dalla fine della guerra molta gente temendo per
la propria vita e volendo un futuro migliore per i propri figli, decise di emigrare nella Zona A, abbandonando case
e terre che vennero requisite dai Titini. La diaspora continuò fino intorno al
1957, in Istria quelli che non se la sentivano di andare allo sbaraglio lasciando case ed averi pur dovendo sopportare il regime ed i nullatenenti, che in cambio dell'occupazione di case e campi
abbandonati, erano lieti di dichiararsi “comunisti”, facendo buon viso alla dominazione
jugoslava.
Era chiaro che nonostante l’evidenza storica, la politica di
Tito nella zona B ebbe successo, in quantola NATO aveva tutta la convenienza a favorire Tito, affinché facesse da cuscinetto politico
verso lo spauracchio dell’ Unione Sovietica ed in tale posizione il governo
jugoslavo rimase fino all’ultimo per poter rimanere indipendente vedendo il Generale diventare leader della
coalizione dei Paesi Non Allineati! E con il trattato di Osimo, cassate il termine, l'Italia vendette il nostro "c_lo" in cambio di indennizzi da fame, rispetto a ciò che è stato lasciato!
Fu così che carovane di carri e di genti, caricate con
povere cose che era PERMESSO dalle autorità TItine di portare con se, lasciò la zona
B per restare Italiana, per mantenere la propria libertà, per garantire ai
figli un futuro migliore, tenendo in tasca la chiave di casa, che non avrebbero
potuto mai più usare e che molti gettarono in mare, ricominciando con
disperazione da zero.
Questo fu l’esodo. Così oltre 270.000 Istriani di origine Italiana emigrò. Grandi lavoratori si sono distinti in tutto il
mondo,non era gente affamata quella che
emigrò: i furlani che ci accolsero ironicamente ci criticavano considerandoci
“troppo pasciuti per essere vittime!!!” tacciandoci
con l’etichetta di fascisti! Perché quelli che uscirono dall’Istria non erano i morti di fame, era una popolazione
attiva,imprenditori, gente di cultura,
ma anche pescatori, contadini, allevatori di una terra e di un mare generosi
con chi lavorava sodo!Per noi il Comunismo
era sinonimo di “foibe”, irruzioni, torture, sevizie,
dominazione, fame, morte: non era il
Comunismo che gli Italiani conoscevano, come
nell’Emilia Romagna , ad esempio , che si affermava quale lotta di classe! Era terrore allo stato puro!
L’accesso ai confini era tassativamente chiuso, chi lo
passava doveva ottenere un permesso speciale e subire una perquisizione fisica,
con la requisizione di ogni genere importato o esportato. Per mantenere il numero di "popolazione" e diritto all'acquisizione definitiva del territorio zona B i titini cercavano di dissuadere l'esodo e l'emigrazione. I flussi della diaspora avvennero in date prestabilite.
Mio fratello nel 1953 ad un anno ebbe un eczema molto
violento e doloroso, la cura che i medici locali gli davano era talmente forte
che appena mamma lo spalmava piangeva a dirotto e faceva pipì per il dolore quanto inadeguata.
Ogni volta che sudava era colto da prurito e iniziava a grattarsi fino a
sangue, piangendo quando veniva pulito. Mia madre chiese per mesi ripetutamente di poter
venire a Trieste, sede di un ospedale infantile per curarlo adeguatamente.
Fatto sta che non le accordavano il visto per paura che fosse un pretesto per “scappare”.
Alla fine esausta prese mio fratello e lo portò davanti al
commissario di zona Titino in Comune e glielo lasciò sul tavolo dicendo : io
non ce la faccio più a sentirlo urlare, a fargli del male con questi
rimedi,fatelo voi se lo potete
sopportare e minacciò di abbandonarlo lì seduta stante. Il medico della milizia
lo visitò e finalmente fu concesso il visto a loro, con l’avviso che qualsiasi “fuga
illegale” avrebbe avuto ritorsioni sulla famiglia di mamma!
Dopo la definizione dei confini la gente iniziò a ritornare per brevi visite nelle terre d'origine a trovare tombe e i pochi familiari rimasti. La mia famiglia era quasi tutta emigrata, ma ogni tanto si andava a trovare un cugino ed a portare i fiori per i morti sulla tomba di famiglia. Era tale il clima in casa mia in quelle occasioni, che ogni volta che si passava la dogana l'ansia ed il terrore dei miei genitori era palpabile come una pesante cortina di piombo.
Solo dopo Schengen alla fine degli anni '90 i confini con la Slovenia sono stati aperti e mi trovo a mio agio in una terra che comunque non era nostra. La nostra casa è in territorio Croato e sono anni che non ci vado!
Questo è stato il
nostro esodo: io sono nata 11 giorni dopo e mamma mi raccontava di come era
talmente depressa e prostrata in quei giorni d'attesa di aver avuto più di una
volta l'impulso al suicidio, ma solo il pensiero di abbandonare mio fratello di
5 anni la bloccò. Il resto, la dura china d'inserimento in una società che già
provata dagli stenti della guerra ci vedeva "stranieri/mangia pane"
nella nostra stessa patria è un altro doloroso capitolo
Papà in questa foto aveva compiuto 40 anni, oggi ne avrebbe 82. Si chiamava Mario, per i familiari Marieto, era il secondogenito. Il "piccolo" di casa. Per suo suocero era "Eto" perché era alto e magrissimo quando s'innamorò di mamma.
Ci parlava delle sue estati nella sua città di mare a bordeggiare con gli amici in barca o al bagno in compagnia di amici e parenti : una schiera di cugini e cugine.
I suoi genitori negli anni della guerra lo mandarono a convitto dai salesiani di Udine per frequentare il rigido Malignani. Anche lì però Papà bigiava la scuola. Ricordava sempre tra gli anneddoti le sberle che l'insegnante gli diede nel 1946 quando all'uscita del scandalosissimo (per allora) film "Gilda" gli studenti furono sottoposti ad interrogatorio e chi confessava di esser andato a vederlo si aggiudicava un sonoro ceffone! Erano i tempi in cui se ti lamentavi con i tuoi di aver ricevuto a scuola una simile punizione ne ricevevi una "gragnola" a casa come ricompensa, oltre che a privazione di quei pochi privilegi di cui potevi godere!
Vista la costosità della trasferta e la poca voglia di studiare, fu trasferito a Trieste da una zia, a completare gli studi presso l'Istituto Volta per periti tecnico-industriali, ma con poco profitto: Papà arrivò alla terza classe, in sei anni!
Dopo di che fu richiamato a casa in Istria per il peggioramento delle condizioni di suo padre, mio nonno. Da allora divenne il suo braccio destro, in vista della successione, essendo l'unico maschio. Poi il matrimonio, la morte del nonno e l'esodo.
L'esilio sconvolse non poco mio padre: figlio d'imprenditori con un futuro già pianificato, la dominazione Titina con la confisca dei beni effettuata dai soldati di Tito, fu un trauma enorme. Divenne operaio della cooperativa, ma la proprietà era stata trasferita di fatto SENZA alcun indennizzo ai dominatori jugoslavi! Non era vita: perquisizioni, soprusi, requisizioni a sorpresa! Con due bambini piccoli, moglie e la madre vedova a carico scelse di rimanere Italiano, scelse la libertà, ma dovette ricominciare da zero senza alcun capitale alle spalle, perché intanto la malattia del nonno aveva assorbito le poche finanze accantonate duramente dopo la guerra.
Essendo nata di domenica, lui mi festeggiava sempre il giorno successivo, nel quale ci raggiunse con mio fratello per vedermi la prima volta.
Ricordo le tacche di bruciato delle cicche che metteva sulla credenza di legno, mentre si faceva la barba in cucina la sera (il bagno era molto freddo) per aver più tempo la mattina. La barba lunga della domenica quando la mattina finalmente avevo modo di incontrarlo in cucina a casa per il turno di riposo e mi dava il bacio del buongiorno stringendomi in un abbraccio e sfregandomi con la barba ispida il viso.
Mi ricordo come religiosamente si mangiava il caffé-latte : riempiendo la scodella di pane ed appoggiandovi sopra la mitica panna, che il latte bollito donava al nostro palato. Sistematicamente si doveva immergere e far affiorare il cucchiaio dal basso verso l'altro per poter prendere il pane con un pezzetto di panna, che mitigava e addolciva la cucchiaiata riempiendo la bocca.
Quando da bambina ebbi i primi incubi lui mi insegnò a non aver paura, ma recitare un Pater ed un Ave Maria a protezione e di star tranquilla che nessuno dopo mi poteva fare più del male. Funzionò ed ancora quando mi sveglio agitata inizio a recitarli, riaddormentandomi come una bambina.
Dopo l'esodo, andò prima a batter ruggine nel cantiere navale di San Rocco, poi finì bigliettaio sulle autocorriere di linea verso il confine, poi operaio nell'officina dell'azienda trasporti cittadina. Ancora ricordo le notti in cui stanco si sentiva che parlava nel sonno "avanti c'è posto", "un biglietto : 50 lire"!
Ancora ho nella mente le serate in cui prima della televisione, quando era a tavola a cena con noi libero dal turno serale, raccontava le storie della sua famiglia d'origine, gli scherzi che da studente facevano a scuola, si cantava, ci si raccontava barzellette. Poi i commenti davanti alla televisione, con in mano la mitica Enigmistica, che completava fino alla fine!
Come mamma, amava leggere ed i libri erano un costo rilevante del suo magro stipendio: c'era sempre da pagare la rata del Milione o dei Classici Azzurri, o del Conoscere, l'Enciclopedia dei Ragazzi, del Dizionario Sansoni e poi i tascabili Mondadori, i Medusa per non parlare del Selezione del Readers' Digest, rivista e libri. Aveva anche dei dischi a 38 giri che ancora posseggo, con la Sinfonia di Beethoven diretta da un giovanissimo Von Karajan, ma anche dischi di musica leggera, con Bing Crosby, Trina Lopez, Zara Leander che facevo andare sul primo giradischi preso a rate da Selezione che aveva la puntina per i 38 giri, che dovevi girare per ascoltare i 45 e 33.
Quando era libero in primavera si andava a fare delle lunghe camminate nella riserva naturale dei laghetti carsici di Percedol, si andava a raccogliere gli asparagi nella bassa boscaglia di Cattinara. D'estate si andava ai Topolini al mare e lui mi insegnava a nuotare, quando ero piccola mi aggrappavo a lui e mi portava al largo dove non si toccava e mi pareva un'avventura straordinaria.
Era introverso, solo chi lo conosceva poteva comprendere il suo stato d'animo, ma non era mai musone, anzi gli piaceva parlare con la gente, conosceva tutti sapeva tutto di tutti e amava la compagnia, le riunioni. A chi gli chiedeva "come va?" rispondeva sempre allegramente "Pulito" (Bene) ad una signora che gli obiettò, "Impossibile che a lei vada sempre tutto bene, qualche volta avrà qualcosa che non va" Lui rispose serenamente "Anche se le raccontassi i miei problemi, lei non ci potrebbe fare nulla, quindi perché tediarla invano?"
Ricordo il periodo doloroso per la malattia di mia madre quando rimase al suo capezzale sempre allegro, mai stanco di accudirla nell'assistenza anche più umile, senza batter ciglio, anzi cercando di distrarla mentre svolgeva questi compiti. Ho visto l'amore con cui la imboccava e le sciacquava la bocca e la sua sofferenza quando lei morì.
Gli anni successivi furono difficili, fino a che non incontrò di nuovo una compagna e con lei riprese a vivere ed io affidai loro i miei figli, che involontariamente chiamava quasi sempre con i nomi mio e di mio fratello. Con loro riuscì a rilassarsi e sciogliersi come ogni nonno riesce a fare, libero da problemi economici, andando dopo poco in pensione assieme alla moglie e per i miei figli fu un nonno splendido, amorevole, ma giustamente severo quando serviva. Assieme li portarono dappertutto, da maggio ad ottobre li vedevo poco e dovevo durante l'estate accompagnarli sempre la mattina in campeggio ed andarli a riprendere la sera; facevano gite in barca, vacanze con il camper, gite in Carso, sparivano e non li vedevo più e si incazzavano quando chiedevo loro i programmi che avessero per concordare le mie ferie in ufficio! Volevano essere liberi di progettare tutto all'ultimo minuto!
Un modo di vivere diverso da quello a cui eravamo abituati e che mi portò a qualche attrito con loro, ma superai tutto per il bene dei miei figli : io avevo poco tempo e forza da dedicare a loro e per lavoro ero tanto lontana da casa, mio marito era incapace di educare, ma solo di giocare e nutrirli a pane e nutella! Per cui li affidai per il tempo che lavoravo a mio padre ed alla sua seconda moglie, perché avevo fiducia in loro, nei loro principi e così i miei figli ebbero sempre un pasto caldo pronto ad accoglierli al loro ritorno da scuola, ed orecchie pronte ad ascoltarli e qualcuno che li seguiva nei compiti: eravamo comunque in sintonia pronti a riferire qualsiasi variazione d'umore o di situazione percepita per concordare come comportarsi. Imparai a dedicare ai miei figli la maggior attenzione possibile quando stavamo assieme in modo da compensare con la qualità il poco tempo che riuscivo a dedicare loro. Ma dissi sempre ai miei figli, che se mio padre avesse avuto per me e mio fratello solo un terzo delle attenzioni e disponibilità che aveva avuto con loro, saremmo stati i figli più felici del mondo, invece subimmo la depressione post-esodo e la nostra vita nella congiuntura e negli scioperi della fine degli anni sessanta non fu facile.
Lui con i miei figli visse una seconda giovinezza. Poi a 70 anni l'infarto, l'agonia, la ripresa, il tracollo e la fine: un vuoto.
Paradossalmente da quel momento qualcosa cambiò in me, fui consapevole di una maturazione particolare: avevo rotto anche l'ultimo cordone ombellicale, iniziai a camminare autonomamente, ormai ero sola e più "grande".